Nel sogno, note di Tchaikovsky, note di molteplici fiati, parole, ripetizioni, appunti, occhi, corpi poi il verdetto. Scrivo su un pezzo di carta colorata strappato dalla tovaglia di un ristorante maledetto: “la vita sarebbe poetica se la morte non esistesse?” La vita è solo un fiore in una distesa infeconda e infinita. Paesaggi desertici, campi di papaveri, parole chiavi, caleidoscopi, scale-acquario, immagini psichedeliche, oasi ardenti, fiori di cactus, miraggi ipnotici, illusioni cromatiche, poesia effimera, visioni oniriche. Cammino con passo lento per soppesare la mia anima nella bilancia degli indifferenti. Seguo passi indelebili, tracce indimenticate. Non sto errando, ma mettendomi in moto. La vita abbandona. Accerchio lo scorpione, lo rinchiudo in un boccale capovolto, punge, punge, e si punge, si punge, poi muore. La bellezza del gesto. Gli animali affamati osservano la mia vecchia pelle da lontano senza commenti. Senza sarcasmi. Senza espressione. Lo stomaco. Massacrato da guerre inutili e innumerevoli. Alle porte di Harar, le ombre sono minacciose, Arthur Rimbaud, il pioniere, è assente, è già partito, una fuga, il fiore muore. Sfinito, ha troppo viaggiato, osannato, venduto e acquistato. Sento il suo cuore gridare «Djami! Djami!» L’amore è un cancro delle palpebre? Un accecamento di miseria? O un cancro al ginocchio per impedirgli di spiccare il volo? Il volo temerario e assurdo di una gioventù bruciata. Piccoli fogli inceneriti di poesie incerte, carta d’Armenia, carta aromatica d'Eritrea, aromi ematici. Poesie puerili, rime futili. «Dove se ne è andato di nuovo?», si chiedono gli amici, l’amata, l’amato, i vicini, disperati. Di uomini così giusti, così generosi, non ne rimangono tanti. Dove lo trovano un altro Arthur? Ha mollato tutto: piume di struzzo, libri di astronomie, tarocchi di Marsiglia, armi senza munizioni, cammelli, anche i suoi libretti degli ordini, o quel manuale per imparare l’arabo che gli ha regalato il padre, ha mollato tutto, sperano: «tornerà » . In tutti i sogni, faccio incontri, ascolto, parlo, ma qui, per la prima volta, vivo, vivo in un sogno, sento, immagino, vado. Mi invitano, parlo con Djami, che è molto triste, e con la compagna di Arthur, Mariam, che è molto preoccupata. Dolce, materna, ma severa e indulgente come Marie Catherine Vitalie Cuif, madre di Rimbaud, l’etiope. Ha provato, tentato di riprodurre. Ma partire per riprodurre quello da cui si è fuggito. Quante volte Arthur ha tirato le carte? Mille volte? Sempre gli stessi tiraggi: successo e grandezza, ma non succede niente, non accade nulla, tutto scoppia, tutto schizza e Paul, dov’è Paul? «Questo bastardo mi ha lasciato per questa bagascia di poesia di merda». Sento le sue parole prima di questa partenza precipitata, obbligata e sopravvivere. Vivere. I grandi poeti non hanno Paesi, frontiere, regole. Djami mi declama i suoi racconti, le sue storie, le sue poesie. Anche Djami è poeta, e questo infastidisce Rimbaud. Arthur ripete le parole di Paul, un bicchiere d’assenzio immaginato in fondo alle dita: «La gente non sa leggere, non sa vedere, né sentire. La gente è morta». Il sogno è insolente, rapido, mi porta dappertutto e in nessun posto, vedo molte persone, bambini, vecchi, che mi chiedono dov’è Arthur, in Harari. I colori sono molti: ebano, testa di moro, indaco, avorio, giallo zolfo, senape, cammello, rosso sangue, viola melanzana… «Ma lei parla italiano, vero? Ho conosciuto Arthur. Simpatico ragazzo. Un po’ pazzo. Ma vendeva di tutto! Grande commerciante! Comprava di tutto!»
Eccoci a Charleville-Mézières, Arthur torna e racconta le sue imprese. Siamo seduti sui cavalli di una giostra, che gira a non finire come una vita vissuta a ripetizione, una reincarnazione in mille vite, voglio che smetta. Mi butto, la mia colonna scrocchia. «Nessuno l’ascolta, tu te ne sei andato, a ciascuno la sua croce, e poi qui parlano tutti di te e di questo Verlaine», gli dice il fratello, con tono volgare, quello dei piccoli borghesi di provincia, che si pensano a Parigi ma parlano con la zappa in mano, reazionari, ottusi e conformisti, sputano. La madre non interviene, lei ama Arthur, ma lui assomiglia troppo al fantasma di suo marito. Il padre di Arthur, Frédéric, capitano, scrittore, giornalista, linguista, etnologo, parla l’arabo, padre troppo leggero, dov’è? In Algeria, in Italia, in Crimea? Fantasma del padre assente, jnoun . Arthur ama il suo jnoun , gli piace imitarlo, gli piacerebbe incontrarlo, ad Arthur piace viaggiare e sigillare le sue lettere scritte dall’Africa e dall’Arabia: Abdoh Rinbo , Abd Rabbo, Rimbaud, servo di Dio. «Mi abituai all’allucinazione semplice: vedevo molto tranquillamente una moschea al posto di una fabbrica». 1 Il fratello non vuole più vederlo, un peso morto per la famiglia, reietto, polvere ritornerai. Le porte sbattono, la pioggia lava l’anima subdola, le sagome si ammucchiano in un ammasso di vecchie idee perfide. La gamba già amputata a Marsiglia, un’ultima seduta spiritica, di magia nera contro Arthur, di magie ardennesi, francesi e belghe, contro la sua foga, il suo entusiasmo, i suoi desideri, le sue partenze, le fughe, e la voce di Mahmoud Ahmed che sembra cantare «Non dimenticarti di Djami, tuo figlio, il tuo tesoro, il tuo amore incondizionato. È il tuo ultimo viaggio, Arthur, non tornerai più a Harar.»
Sua sorella Isabelle mi prende per mano e mi dice: «Mio fratello Arthur è un messia, sì, non mi guardi così Patrick Lowie, mio fratello è un liberatore, designato e inviato da Dio. Lo so che le piacerebbe incontrare Arthur in questo sogno e parlargli. Lo so, lo so… Tutti amano la sua poesia, ma Lei è diverso, è come me, non è questo che Lei ama, Lei ama le sue fantasie, la sua vita, le sue ricerche, la sua curiosità, i suoi viaggi, il suo modo di rapportarsi con il mondo, i suoi ricordi, i deliri, la chiaroveggenza, la sua eterna giovinezza, la sua turpitudine… Smettiamo di scrivere poesia, siamo poeti. Dio ce lo chiede costantemente, lo sa?» Resto zitto, mentre lei mi massaggia la mano, mi sfila le scarpe e mi massaggia i piedi, le falangi, i metatarsi… «Voi siete degli Illuminati». Di chi sta parlando? Nessun suono mi esce di bocca. Mi bruciano i piedi come candele accese, stecche d’incenso, ancora odori, il suo volto di suora contamina i miei pensieri, la sorella di Rimbaud porta il velo a meraviglia, ma Arthur dov’è? Perché siamo all’ospedale di Marsiglia?
Nell’ospedale di La Conception, un’enorme locandina attaccata con lo scotch sul muro destro dell’ingresso indica: “Ora sappiamo che la poesia deve portarci da qualche parte”. Oramai so che la poesia ci porterà a Mapuetos. L’unico viaggio non documentato di Frédéric Rimbaud, come per suo figlio, come per chiunque. Mapuetos, terra incognita. Ma prima di tutto, questa camera condivisa, diversi letti distanziati, tre metri l’uno dall’altro, distanziamento sociale, nei letti dei bambini, colera, morbillo, difterite, tifo… Tutti moribondi. Arthur non è più un bambino, perché è ancora sdraiato in quel letto? Un’infezione al ginocchio? Isabelle mi precede, mi guida, sento le donne disperate pregare e gli uomini disillusi, scettici, cinici. Loro non pregano, devono lavorare. Rimbaud urla il suo dolore, il suo sentirsi perso, vuole tornare a casa da Djami. Sarebbe stato meglio morire a Harar, accanto ai suoi veri cari. L’oppio ha fatto il suo effetto, dopo alcuni tentativi di magnetismo animale, Arthur delira e rivede il musico del porto di Anversa, dopo la traversata con il traghetto, le luci che scendono, vedo anche i suoi sogni, come se fossero proiettati sui muri sopra la sua testa, vedo quello che vede, sento quello che sente. Nel bar, uomini Neri, distinti, osservano ballare due donne che con le mani sui fianchi si danno in spettacolo, al ritmo dei suoni dell’organetto, uomini appena rasati, sognano e pensano, Arthur rivede queste immagini e si ricorda, è solo, ha appena lasciato Londra, Verlaine, e si ritrova qui in questo musico di un porto in cui aveva visto che gli uomini avevano un debole per gli esercizi del corpo, ha visto degli uomini nuotare nello Schelda, uomini pattinare nei parchi, uomini con le spalle larghe. Questo porto ha visto i Belgi indigenti fuggire dal proprio Paese per colonizzare il Brasile, altri sono imbarcati sull’SS Berlin dal porto tedesco di Brema, scappando dai debiti, preti come il Monsignor Hereman, da Eksaarde per comprare o rubare terre altrove. Osservo le mani di Arthur, le sue dita che sembrano tamburellare su un piano, il suo sorriso. Rimbaud intona una musica nella sua testa.
Di nuovo sul carosello, con i suoi cavalli di gesso che vanno su e giù, la carrozza dorata dei prìncipi decaduti, Arthur si ricorda dell’Iran, di Esfahan, ma ci è stato davvero? Non sono entrato nella sua giostra delirante, lo vedo che si sdraia in un campo di papaveri da oppio e mi parla della Madrasa, mi dice: «Venga qui… Nella vita, bisogna essere colti, eruditi e umili. Lei verrà odiato dall’elite, ignorato dal popolo, ma graziato da Dio. Mi è stato detto da Apollo di Esfahan. Mio padre, Frédéric, è morto a Digione, ho letto i suoi libri di nascosto, mia madre detestava il suo lavoro, pensava che esistesse un solo libro degno di questo nome. Una notte ho sognato di lui, mi invitava ad accompagnarlo fino in Persia, il sogno era pieno di tenerezza, ricordo un viale costeggiato da palazzi in rovina, giardini, labirinti, ricordo gli alberi da frutta, le piante multifrutto, i roseti e le vigne. Mio padre mi condusse nella stanza di un palazzo, diceva di essere l’unico ad averne la chiave. La camera era una grotta di casseforti, d’oro, di diamanti… Mi ha detto: “Arthur, tutto questo ti appartiene. Non sono ricco, ma ti offro tutta la ricchezza del mondo, il mio sapere”. Nel sogno, tutto brillava, gli occhi di mio padre erano rubini. Mi vergognavo di questo dono immenso. Quando mi sono svegliato, ero in un misero letto di una camera puzzolente di uno squallido hotel a Bruxelles. Questo sogno mi ha fatto vivere nell’illusione. La vita non è altro che illusione. Niente è importante, niente è concreto. Ho cercato Mapuetos per te, per me, per noi. Ho esplorato ma non ho trovato niente.» Le sue labbra proseguono ma non sento più.
Nel sogno mi sembra di svegliarmi, mi alzo e scrivo un messaggio al mio editore: “La scrittura del ritratto onirico di Rimbaud è complessa. Più s rivo e p ù le l ettere scomp iono, vado in t ans, mi stanco v locemente, poi torna tutto normale, nel sogno incontro Isabelle e Arthur, e anche Djami. Spero di pu blicarlo oggi, ma non ne sono s curo… sogno di cro iate, di via gi, di sco erte senza rela ioni, repubbliche senza s tor e, gue re di rel gione soffocate, rivoluzioni di cos umi, spos amenti di ra ze e di co tinenti: credevo a tutti gli inca tesimi.”
Di ritorno all’ospedale La Conception, Arthur ordina a sua sorella di riportare i cammelli, dei piccoli di cammello agonizzano sul suolo gelato della camera comune. Arthur muore, vive i suoi ultimi momenti, l’hanno abbandonato nel suo ultimo viaggio, urla: «Non sono un poeta! Un esploratore, sono un esploratore!» Gli sussurro all’orecchio: «Un poeta è un esploratore». Diversi medici e infermieri entrano nella camera che si trasforma in una sala operatoria. Gamba amputata troppo tardi, cancro, cancrena, pelle blu, pelle nera, un medico gli tocca la piaga con il dito e preme, un modo per interrompere il dolore, Arthur sviene. Si spegne la luce del sole, si accendono i neon blu, lampeggiano, una musica techno, un centinaio di bambini suonano l’atamo, un tamburello fatto d’argilla. Picchiano con le mani insanguinate, come per svegliarlo, per intontirlo, impedirgli di morire. «Presto, presto, prendi il libretto degli ordini, sì il caffè, sì le piume di struzzo, sì le armi, sì il caffè, caffè, caffè. Voglio tornare a casa! Portatemi a casa, a Harar!»
Vedo Vitalie, sua madre, morire di dolore alla prima fuga di Arthur. Alla seconda fuga, urlare: «Che vada al diavolo!» 2 Alla terza ci si è abituata, «È fatto così, la copia sputata di suo padre!» Si prepara a seppellirlo, ha altre cose da fare, cose molto più serie.
Arthur si sveglia, con gli occhi all’infuori, uno strabismo divergente e occhi esorbitati, come affetto dalla malattia di Basedow. È irriconoscibile. Mi dice: «Patrick Lowie, le voglio confidare un segreto, non lo sa nessuno, sono andato in Ecuador, ho visto il vulcano Taita Imbabura (il padre), l’ho scalato per arrivare in cima: a più di 4000 metri. La vista era magica. Mi trovavo di fronte all’altro vulcano Mama Cotacachi (la madre). Si è messo a nevicare all’alba, è il padre che è venuto a far visita alla moglie durante la notte. Siamo scesi, colpiti dai fiocchi. La montagna sacra. Ho sognato per undici notti di fila. Ho sognato del mio passato, del mio presente, della mia morte. Lei c’era al momento della mia morte.» Gli rispondo: «Non può morire, lei è immortale». Risponde: «Sbaglia a credere nell’immortalità. Tutto ciò che il mondo scriverà domani sarà sempre meglio dei miei scritti, perché l’amore va sempre reinventato.»
Nel frattempo, Djami, acquattato nell’ombra di un angolo nella stanza d’ospedale, lascia andare qualche lacrima mangiando piante. Si immerge nella lettura di racconti dimenticati a Harar, avendo scoperto le poesie di Arthur e sentendosi in dovere di scriverne. Figlio spirituale diletto, benedetto, costretto ad abbandonare il super-io. Anche se la mia anima freme di domande, il ritmo dei colori sfuma i contorni dei miei pensieri e mi fa precipitare nel buio.
Rimbaud muore. L’esploratore non era immortale.
1 Una stagione all’inferno, Arthur Rimbaud, traduzione di Diana Grande Fiori, Mondadori, I Meridiani, 1975.
2 Madame Rimbaud, Françoise Lalande
Traduzione : Irene Seghetti
La versione originale in francese è disponibile cliccando qui
Questo testo originale è ispirato dal testo teatrale (KALEIDO - RIMBAUD - SCOPE) scritto e diretto da Patrick Lowie, e andato in scena dal 7 al 9 settembre 2012 a Marrakech. Il progetto ha beneficiato di una borsa Sabam (Società belga degli autori, compositori ed editori)
La foto dell'illustrazione (pubblicazione autorizzata dall'autore) è tratta dalla notevole opera di Luc Loiseaux, pubblicata con il titolo “Rimbaud est vivant” (Gallimard). Questo album, illustrato con un centinaio di immagini create con l'intelligenza artificiale, ripercorre cinque anni decisivi della vita di Arthur Rimbaud, dal 1870 al 1875. Un periodo creativo, esaltante e tumultuoso, durante il quale il giovane poeta scrisse la sua intera opera.
Nato il 20 ottobre 1854 a Charleville, in Francia, Arthur Rimbaud è stato un poeta prodigio del XIX secolo. La sua vita fu segnata da un’eccezionale precocia e da un’intensa creatività. Rimbaud ha iniziato a scrivere poesia da ragazzo e per quanto abbia dimostrato un talento inconsueto, non ha goduto in vita di grandi riconoscimenti. Il suo incontro con il poeta Paul Verlaine è stato decisivo. I due uomini hanno allacciato una relazione tumultuosa, sia dal punto di vista artistico che personale. Insieme hanno prodotto le poesie più innovative della letteratura francese, segnando indelebilmente il movimento simbolista. Rimbaud ha raggiunto la maturità poetica a un’età precoce, ma la sua carriera letteraria fu breve. All’età di ventun anni, dopo anni di vagabondaggio e di avventure, Rimbaud ha rinunciato alla poesia per dedicarsi ad altre attività, in particolare al commercio e all’esplorazione in Africa. Le sue poesie, fra cui Il Battello ebbro e Una stagione all’inferno , hanno avuto un’influenza considerevole sulla poesia moderna. Il suo stile innovativo e sovversivo nei confronti delle norme letterarie tradizionali hanno ispirato numerosi scrittori successivi. Rimbaud è deceduto il 10 novembre 1891, all’età di 37 anni, a seguito di un tumore. Il suo impatto sulla letteratura e l’arte hanno continuato a crescere nel corso degli anni, facendone una delle figure emblematiche della poesia francese.
sc lowie ie - Yenaky
Chaussée d'Alsemberg 264
Sauf mention contraire, tous les textes sont signés Patrick Lowie. Il est interdit de copier, reproduire ou de publier tout ou partie de ces textes sans le consentement de l'auteur.