Questo ritratto è stato pubblicato in francese nel libro Le totem d'Imyriacht (2023) edito da maelstrÖm (Belgio)
La prima volta che ho visto Bijan Qutub è stato su Euronews, il 29 agosto 2013. Partecipava al Festival di Bahrein. La prima volta furono le immagini della sua performance in Sherazade (che in persiano significa “nato nella città” o “figlio della città”), balletto classico diretto da Diaghilev, progetto del Centro Nazionale per la Cultura e l’Arte in Giordania, dove è nato Bijan da una coppia mista giordana e ispanico-filippina. Oggi è a New York nella Joffrey Ballet School dove, come direbbe Nijinsky, si dedica “anima e corpo, lavorando come un bue” alla danza, passione tardiva ma quanto mai trascendentale. Sono le sei del mattino. Ecco Bijan nella metro, seduto davanti a duecento uomini baffuti. Le palpebre ancora spente per vedere bene e rivedere il suo unico sogno. Un sogno che si ripete ogni notte e si materializza: trovarsi fra i più grandi, nei più grandi balletti del mondo… New York? Losanna? Milano? Vienna? Tokyo? A forza di voler far danzare le stelle, può capitare che ci si perda. Il sogno non è forse una breve follia? La follia non è forse un lungo sogno? Sento che il suo corpo si sta trasformando, rivede i passi di danza, non sente più i muscoli, la danza è come un’esplosione di sé, del proprio subbuglio interiore, la danza è una necessità, come per altri lo è scrivere o cantare. Bijan potremmo vederlo danzare ovunque, nelle strade deserte di Amman, nei deserti di citrini naturali, nei deserti della realizzazione personale, per accettare il proprio potere e regolare i rapporti di forza. Potremmo vederlo con le braccia aperte sul mondo per dare l’illusione che stia cambiando stato, camminando corpo e anima dentro ad anelli e a cerchi o provando a volare. È per questo che la danza fa parte della vita dei migliori scrittori e degli artisti più grandi, che intuiscono che le parole più giuste ci sfuggono come nei più bei quadri e nelle sculture dell’artista irakeno Ahmed Al Safi, degno rappresentante dei movimenti neoespressionisti. Chissà se Bijan non stia già scrivendo un diario in cui ci racconta la storia di un personaggio volante, che a sua volta conta i propri passi per restare vivo in un’alba incerta. E provo a capire quale sia stato per lui il suo momento topico. Perché non l’ho ancora detto, ma quando Bijan ha deciso di imporre al suo corpo di danzare, pesava 130 chili. Non penso che all’epoca si vedesse come un danzatore di Botero, si vedeva già come un’ombra leggera, bisognava dunque dimagrire e l’ha fatto, perdendo sessanta inutili chili. La danza non è solo una performance fisica, i danzatori sono come poeti, colgono i fiori più belli del mondo caotico per tornare all’essenziale. Per non dimenticare che il mio compito, il suo compito, il nostro compito è innanzitutto coltivare la bellezza in un mondo alquanto vile.
Traduzione : Irene Seghetti
La versione originale in francese è disponibile cliccando qui
Bijan Qutub è un danzatore giordano. Nel gennaio 2015 è stato ammesso alla Joffrey Ballet School di New York.
sc lowie ie - Yenaky
Chaussée d'Alsemberg 264
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